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🌈 Hey! Che bello rivederti qui, viva i titoli clickbait alla “VICE” che ti hanno portato a leggere le prime righe di questo articolo. 🌈

Eccoci qua, ci risiamo: con poca voglia di fare network, un po’ di sete di prosecco e tanta fame di contenuti di valore, dopo un paio d’anni di stop siamo tornati a un evento dedicato alle agenzie (principalmente di comunicazione): Supernova Agencies, organizzato da Wethod!

Il titolo di questa edizione era “Harnessing Complexity”, quindi come potrete facilmente immaginare il tema centrale era la complessità.
Complessità di cosa? Gli argomenti principali erano (o sarebbero dovuti essere) le criticità e le difficoltà organizzative e gestionali nelle agenzie e nelle aziende.
Tema che, ahimè, solo alcuni dei dieci speaker hanno toccato ed esplorato per davvero.
Come si dice dalle mie parti però «pitost che gnent, megl’ pitost».

Ma quindi, cosa ci portiamo davvero a casa dopo questo evento?

E no, la risposta non è il cappellino di Wethod, perché noi eravamo seduti all’ombra 💔

Partiamo dal principio, apre le danze

Tomas Barazza

Founder @wethod che esordisce con un concetto tanto semplice quanto difficile da accettare e ancora di più da mettere in pratica: la complessità può produrre valore, e diventare un alleato.

Boom, la tocca piano.
Più facile a dirsi che a farsi.
Non perché sia difficile trovare complessità nelle agenzie, quanto più trasformarla in energia positiva. 

 

– “In a world where players are all adapting to each other and where the emerging future is extremely hard to predict what actions should you take?”
          Harnessing Complexity, Robert Axelrod & Michael D. Cohen

Secondo questo grafico raffigurante l’Edge of Chaos, ovvero un concetto vagamente definito da Christopher Langton nel 1990, nel momento in cui si raggiunge la massima complessità si ottiene il massimo valore. 

E fin qui, tutto bellissimo direte voi, ma concretamente?
Si è disquisito abbastanza su questo, ma uno di casi studio in particolare presentato da Tomas mi ha affascinato molto (soprattutto ipotizzandone l’utilizzo per la progettazione di identità visive dinamiche): i sistemi adattivi complessi teorizzati da John Convey.

Di seguito un piccolo esempio:

 

A questo link, se la cosa vi interessa, potrete approfondire.

In sostanza, l’amico John ha cercato di capire come sistemi complessi evolvono nel tempo.
Quando pensiamo alle organizzazioni (aziende, agenzie, gruppi di lavoro, ecc…) spesso immaginiamo strutture effettivamente complesse.

Quindi la scelta di abbracciare la complessità, cosa può implicare concretamente per le organizzazioni?
Difficile dirlo con assoluta certezza, certo è che l’immobilismo e il controllo assoluto non possono portare a nulla di buono, soprattutto nei settori più creativi.
È altrettanto vero però che troppa esplorazione porterebbe ad uno sperpero di risorse.

Abbiamo bisogno muoverci tra la stabilità e il caos più totale?
🤷‍♂️

 

Dopo questo psichedelico talk, è il momento di

Alessandro Mininno

(che ho amato con tutto me stesso),
Founder e CEO di Gummy Industries.

Per chi non la conoscesse, Gummy Industries è un’agenzia di comunicazione digitale molto figa con sede a Brescia.
Questo speech per quanto raccontasse la storia di un’azienda molto diversa dalla nostra realtà, è stato ricco di spunti sulla gestione del team e ancora di più sulla gestione di un’azienda.

Long story short: dopo un po’ di tempo all’interno di Gummy si era percepita una certa lentezza, poca creatività e overwork.
Un po’ come «le Agenzie Milanesi che rifanno 14 volte le creatività prima di presentarle al cliente» (che poi diciamocelo, anche a Treviso e provincia sono così).

Quindi cos’hanno pensato di fare questi matti?
Suddividere tutto il personale dell’azienda in piccoli team, chiamati “Cucine”, ciascuno di questi con un proprio obiettivo di fatturato, una specializzazione e ovviamente uno Chef (un responsabile).
In poche parole è come se all’interno di Gummy Industries ci fossero delle altre piccole agenzie che si occupano di:

  • Brand identity;
  • Content production inclusiva;
  • Game design;
  • Comunicazione sociale e cultura;
  • Open innovation;
  • Digital products (siti internet e app).

Il modello che stanno seguendo è il: REN – DAN – HEIY (letteralmente “dipendenti” – “utenti” – “link”).

Qualora voleste approfondire qui trovate parecchio materiale.
Attenzione però, se non siete disposti a cedere autonomia, margine e controllo della vostra azienda al team questo modello potrà mai funzionare.

Per quanto la vostra azienda possa essere grande come una delle cucine di Gummy, questo approccio può rivelarsi ugualmente vincente nella valorizzazione dei singoli talenti che lavorano insieme a voi.

PS. Alessandro ha una newsletter super interessante, iscrivetevi!

 

Dopo un altro paio di speech è il turno di

Anna Norelli

Head of Operations @DUDE
(oh ma quanto è bello usare i job title “Head of qualcosa” in Italia?)

Scherzi a parte questo intervento, nonostante fossi piuttosto scettico, si è rivelato molto interessante.
Innanzitutto: cosa fa Anna all’interno di DUDE?
Lei e il suo team si occupano di gestire sostanzialmente le persone, i rischi e molte altre cose complesse all’interno dell’azienda.

In breve, l’obiettivo è eliminare le inefficienze e ciò che crea problemi.
Togliere il rumore. 

Durante il talk si è parlato di molte cose, tra cui del modello CAPS a seguito del quale, non rivelatosi particolarmente efficace, si è passati al “meno riunioni, più conversazioni”, approccio che condivido.

Ma parlando di complessità, una cosa che mi ha colpito è stata la scelta di adottare un modello anche per i feedback.
Tale soluzione come potrete immaginare, aggiunge un ulteriore livello di complessità ai processi, ma consente senza dubbio di fornire un riscontro più completo.


Ecco un buon esempio di come la complessità possa rivelarsi concretamente positiva per un’azienda.

Tanto più riusciamo ad abbracciare la complessità, tanto più riusciremo a trovare risposte semplici.
Perché, come dice Anna, togliere il rumore è certamente importante, ma ricordiamoci di preservare la musica e restare sempre in ascolto.
A volte un’eccessiva semplicità non è necessariamente positiva. 

 

☕️

Dopo una breve pausa caffè con biscottini al burro che creano dipendenza solo a guardarli, è il momento di

Enrico Marchetto e Andrea Santin

rispettivamente Digital Strategist e Head of Paid Media @Noiza

Il titolo del talk è “Un terzo cultura, un terzo processi, un terzo a caso.” e io già li amo.
Leggenda narra che i due soci si siano conosciuti in una bisca di poker a Trieste e mi piace immaginare che uno dei due sia diventato socio dell’agenzia vincendo le quote con una mano mediocre. Tipo doppia coppia di 9 e Jack.

Nonostante la marchetta (quasi obbligata) a wethod, l’intervento di questi due pazzi scatenati ha fatto riflettere tutti in sala su un tema caldo che ci sta molto a cuore, ovvero la retention: come trattenere il talento.
Questo è da sempre uno più grossi problemi in agenzia. 

Come tenere le persone in azienda?
Boh

I fattori sono tanti, ma probabilmente il più incisivo è “la cultura aziendale”.
Su cosa poggia la cultura aziendale e cosa significa soprattutto?
Smettiamola con i soliti “Mission” “Vision” “Valori” “Sticazzi”, ecc. Cosa c’è alla base di tutto questo?

Cultura = Energia

Date sostanza ai vostri valori, per davvero:

  • Portali nelle job interview;
  • Portali nell’onboarding dei nuovi membri;
  • Portali negli all hands on deck;
  • Portali nell’onboarding dei clienti;
  • Legali a comportamenti specifici.

Ma soprattutto, ascoltate costantemente il team.

Cercate di favorire REALMENTE diversità e inclusività: 

È necessaria maggiore chiarezza, trasparenza e correttezza con i propri collaboratori.
Ad esempio, con commitment sui progetti rispetto alla premialità o rendere tutti partecipi dei dettagli di tutti i progetti.
Questi sono fattori che generano trasparenza, e rimuovono le zone d’ombra in cui spesso si nascondono le ambiguità e i disvalori.

Grazie Enrico e Andrea, questo è stato probabilmente lo speech che più ho apprezzato.

 

Alice Siracusano

CEO & Partner @LUZ

Lo sapevate che i bambini sono dei geni creativi all’età di 3 anni?
Io non ne avevo idea.

Alice ci racconta di alcuni test che hanno evidenziato come la genialità sia inversamente proporzionale all’età di una persona.

A 5 anni la percentuale di geni tra i bambini testati era del 98%, a 10 anni era il 30%, a 15 anni 12%, a 30 anni 2%.
Il 2% raga. Dal 98 al 2.

Dopo un primo momento di stupore, mi sono effettivamente domandato cosa significhi essere geniali.
Forse un’intera popolazione mondiale di geni collasserebbe su se stessa, no?

Ma non preoccupiamoci, non potremo mai saperlo. E sapete perché?
Perché esiste la scuola che, per quanto mediocre sia, sembrerebbe favorire la perdita di libertà di pensiero in favore di una maggiore metodologia e adozione di schemi. 

Come facciamo quindi?
Smettiamo di mandare le persone a scuola? Certo che no.

È qui che entra in gioco il concetto di “giudizio“.
Secondo Anna infatti, l’assenza di questo permetterebbe infatti di uscire da questi schemi. 

Sarebbe dunque necessario liberarsi dal giudizio per favorire la comunicazione all’interno del team, tra – cito testualmente – «Capi e LORO».
In che senso “Capi” e “Loro”? 👀

È forse una cit?

Ha ancora senso parlare di “Capo”? Non dovremmo cercare di capire come sviluppare una struttura sempre più orizzontale volta a responsabilizzare i membri del team?
Forse dovremmo essere tutti capi della stessa azienda e remare nella stessa direzione.

PS. se vi interessa il rapporto tra giovani e lavoro, questa newsletter potrebbe interessarvi: ANDATURE

 

 

Rosella Ferrara

Arriva il momento della Creative Strategist @Spotify 

Con uno speech dall’insolito titolo Ti lascio perché ti amo troppo, che in qualche modo riprende il tema della retention già affrontato da Enrico e Andrea in precedenza.

Il tutto parte da una riflessione molto semplice: se pensiamo alle agenzie di comunicazione in cui abbiamo lavorato, ricorderemo che la maggior parte dei colleghi erano (e probabilmente sono) tutti coetanei.
Nelle agenzie creative infatti l’età media è meno di 34 anni (53%).

All’interno di queste non è facile trovare strategist, soprattutto perché molti di questi, una volta maturata una certa esperienza e diventati “senior” se ne vanno.
Abbandonano la vita da agenzia (e come dargli torto).
Ma come mai?

Alcune ipotesi: 

  • Diventano freelance/consulenti;
  • Lavorano nei digital services (digital publishing, tech companies…);
  • Vanno a fare i clienti (marketing/comms, brand, product, content);
  • Provano con le startup;
  • Addestrano cavalli, diventano insegnati di yoga, ristoratori, meccanici, e tutto quello che più c’è di lontano da un’agenzia, mettendo però in pratica tutte le soft skills acquisite nel tempo.

Sapevate, infatti, che in media uno strategist resta in un’agenzia 10 anni?
Se ci pensate è davvero un peccato, poiché restando per poco tempo nelle agenzie ci si perdono molte cose, tra cui:

Possiamo quindi affermare che
IL MODELLO DI AGENZIA È ROTTO?
Io dico “sni”, in fin dei conti la gente se ne va per cercare un buon work/life balance.

Un’altra informazione che mi ha fatto riflettere abbastanza, su di noi e su molte delle grosse agenzie che conosco, è che un’agenzia diventi una “nuova agenzia” ogni 3 anni per il cambio delle persone. In poche parole, se non consideriamo i fondatori, ogni 3 anni il gruppo di lavoro cambia quasi completamente.
È un dato davvero allarmante a pensarci bene e q
uesto non può che creare una serie di problemi, tra cui la perdita di clienti che, non avendo più un rapporto con il team o una persona di riferimento, cambia agenzia/fornitore.

Pertanto, per mantenere le persone all’interno del proprio team di lavoro:

  • le agenzie dovrebbero puntare davvero di più su su diversità e inclusione: l’82% di queste infatti non ha programmi su diversity e inclusion.
  • Bisognerebbe tornare ad essere partner strategici e investire su un’esperienza reale e di valore.

Facciamoci amare di più, dal team, dagli strategist e dai clienti.

 

È il turno di

Michele Pagani

un talk intitolato Flatmates: essere coinquilini, ma in full remote, non poteva che incuriosirci essendo anche noi in full remote da più di due anni.

Ormai lo sappiamo: il mondo del lavoro per i giovani è completamente diverso dal post pandemia.
Alcuni giovani professionisti, anche in Be.Family, non hanno mai vissuto la classica “vita in agenzia” caratterizzata da pause caffè alla macchinetta e chiacchiere con i colleghi, eppure questo non significa che il modello di lavoro non possa funzionare.

Michele ci spiega come, nel tempo, sono riusciti a consolidare questo modo di lavorare, attraverso sostanzialmente 3 fasi:

  1. Action;
  2. Processi;
  3. Cultura (linea gerarchica).

Negli ultimi mesi ci siamo imbattuti in molte agenzie che promuovono lo smart working (che sarebbe semplice remote, ma vabbè), ma poi se ne escono con «preferiamo fare gruppo ed essere tutti insieme».
Noi, così come i ragazzi di Flatmates, riteniamo che questo permetta un ottimo work life balance, ma non solo per i dipendenti, bensì anche per i fondatori.
Perché diciamocelo, il fatto di aver fondato un’agenzia non significa voler e dover lavorare 1.000 ore a settimana ✨

Affinché tutto questo funzioni, bastano piccole accortezze e regole.
Molte di quelle adottate da Michele e il suo team sono le stesse che abbiamo noi.

  • Massima libertà su vacanze e spostamenti;
  • Organizzazione file in Cloud e allineamento di tutto il team sui vari progetti;
  • 2 standup settimanali (noi a dire il vero ne facciamo solo uno);
  • 1 all agency mensile (ci si trova tutti insieme nello stesso luogo) e una festa o meeting in qualche location esterna all’ufficio a semestre;
  • One to one trimestrali.

Anche noi di Be.Family siamo convinti che questo sia l’approccio giusto per lavorare serenamente all’interno di un’agenzia, custodendo gelosamente il proprio tempo ma non per questo trascurando il rapporto con i colleghi.

Ci sono dei contro? Certo che si!

  • Costi
    l’essere attrattivi è costoso (off-site, feste, premi);
  • Non c’è la cosiddetta Serendipity
    Paghiamo le inefficienze del full remote;
  • Non c’è controllo
    Questo modello non funziona se vuoi controllare il tuo team in modo maniacale;
  • Alienazione
    Molte responsabilità e necessità di organizzare il proprio tempo può portare una persona al soffocamento o addirittura all’alienazione;
  • Mancanza di una sede fisica
    Molti clienti vogliono incontrarci in ufficio ed è talvolta difficile spiegargli che non l’abbiamo e che per Elisa sarebbe difficile raggiungerlo da Barcellona.

La sfida per il futuro quindi è mantenere questi valori, adattandoli a un’organizzazione che cresce.
Consapevoli che la cultura non si costruisce con i processi, ma con le persone.

 

Arriva l’ultimo speech di

Giorgio Soffiato

Managing Director @MARKETING ARENA

Questo è stato un talk davvero intenso e ricco di verità.
Giorgio ci ha posto molte domande che hanno fatto riflettere:

  • Dove sono oggi le agenzie Italiane?
  • Dove stiamo andando?

Chi guida un’agenzia vuole denaro, tempo e reputazione, mentre chi ci lavora vorrebbe serenità, denaro e progetti belli (se non altro il denaro lo vogliono tutti).
Ogni giorni quindi dobbiamo trovare un modo per rendere tutti ugualmente soddisfatti.

Ma come guadagnare tanto?
è meglio avere 10 clienti da 30k o 1 da 300k?
è meglio proporre tanti servizi o pochi servizi?
è meglio dire si o no?
è meglio contare e “billare” i progetti a tempo o non parlo perché “le tracceremmo di merda”?

La verità è che dobbiamo scegliere se crescere.
Perché la crescita porta a dinamiche complesse e scelte difficili.

L’unica cosa certa è che la strategia, a qualsiasi livello, è fondamentale per restare sul mercato.
Di seguito alcune slide che parlano da sole sullo stato (compreso il nostro), di molte piccole/medie agenzie:

 

Quindi, riassumendo molto molto molto brevemente quello che abbiamo capito in merito a complessità e organizzazione aziendale è che:

  • Serve consolidare i processi e le procedure;
  • Le dinamiche interne sono in continua evoluzione, pertanto è necessario sapersi adattare in modo agile e veloce;
  • Il monitoraggio e la pianificazione stanno alla base di un’agenzia che funziona;
  • È necessario essere quanto più inclusivi, trasparenti e corretti possibile con il nostro team, adottando soluzioni di premialità per remare insieme verso un’obiettivo condiviso.

Non abbiamo avuto il piacere di partecipare alla prima edizione, e forse proprio questo ha contribuito ad aumentare le aspettative che avevo nei confronti dell’evento.
Evento senza dubbio interessante, che come spesso accade, diventa un salottino tra creativi che presenziano solo per poter scrivere la mattina seguente un bel post motivazionale su LinkedIn e dimostrare come siano attivi a attenti al benessere dei propri collaboratori.

Detto ciò, complimenti al team di Wethod e bravo Tomas Barazza, senza dubbio un ottimo evento per attrarre potenziali clienti (il giorno in cui il nostro collega Niccolò abbandonerà Excel vi chiameremo) e diffondere buona cultura aziendale.

E voi c’eravate?
Cosa vi ha colpito maggiormente?
Ci vediamo al prossimo salottino per bere gratis.

Design

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Pierfilippo ArianoPierfilippo Ariano3 Giugno 2019