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Ha fatto scalpore in questi giorni il clamoroso forfait della campionessa olimpica Simone Biles durante la gara a squadre di ginnastica di Tokyo 2020. «Ho i demoni nella testa» ha dichiarato l’atleta americana nell’immediato post-ritiro (da successive dichiarazioni si apprende che si tratta di twisties, un fenomeno che causa la perdita di orientamento nello spazio): un’ammissione che fa nuova luce sul delicato tema della salute mentale nel mondo sportivo professionistico e lascia intravedere il volto umano di una leggenda sportiva, che non è fatta solo di sorrisi, successi e profumate sponsorizzazioni, ma anche di debolezze.

La favola dell’atleta che vince ogni difficoltà e si rilancia contro i pronostici ritorna più volte in questa edizione delle Olimpiadi: dalla rottura del tendine di Achille di Tamberi, al Covid di Ferrari, dai problemi di concentrazione di Jacobs alla mononucleosi di Paltrinieri (solo per citare i nostri connazionali).

Diverso il caso di Biles, dove la debolezza ha preso il sopravvento, ma ha lasciato spazio a un’inaspettata serenità: Simone ha trasformato una raggelante fermata in un’occasione di nuovo inizio, mettendo in secondo piano la gloria, le ambizioni personali e, in particolare, le attese pesantissime del pubblico, diventando di fatto il nuovo volto della causa a tutela del benessere emotivo e psicologico degli atleti nel mondo. A mio modesto parere, una delle vittorie umane più grandi di questa Olimpiade.

Possiamo affermare che la debolezza, se manifestata, può diventare un punto di forza, un fattore di differenziazione e, perché no, una leva di marketing.

 

Comunicare la debolezza con ironia

Il vero segreto per trasformare una debolezza in punto di forza è… ingigantire il “difetto”. È la provocazione, nonché auto-ironia, che sta alla base della celeberrima Think Small di Volkswagen, a cura di DDB Group, capitanata da Bernbach. In un’epoca che rincorreva consumismo e produzioni in dimensioni large, il Maggiolino si presenta al mercato americano degli anni ’60 con un messaggio rivoluzionario, che avrebbe sconvolto il mondo dell’automotive e della comunicazione: «Pensa in piccolo… per diventare grande».

«Think Small» by DDB Group (1959).

In un annuncio così spiazzante, anche i dettagli non scritti contano, e son pensati per rendere il messaggio ancora più forte: niente colori, niente distrazioni, niente guidatori sorridenti o famiglie alle prese con un’entusiasmante gita fuori porta, niente eccessi… ogni tanto essere più piccoli ha i suoi vantaggi!

Il risultato di questa campagna? Il Beetle diventò il modello di punta della casa tedesca e il brand Volkswagen divenne sinonimo di affidabilità.

 

Ammettere che c’è qualcuno più bravo di te

Nello competizioni sportive si dice che «il secondo è il primo dei perdenti»: visione cinica, ma corretta. Il cronometro fissa i tempi di arrivo e la classifica è cristallina: i vinti non possono che ammettere la sconfitta e complimentarsi con il vincitore.

In un mercato competitivo, la quota di mercato può essere un parametro per stabilire chi è il leader: per questo brand appare semplice fare comunicazione, dall’alto delle sue vendite. I competitor cercano di assottigliare la distanza dal leader, giorno dopo giorno, proponendo nuovi servizi, altri agiscono da follower, sfruttando la scia tracciata dal leader. In ogni caso, non è mai semplice ammettere di essere secondi a qualcuno.

È quel che ha fatto Avis in un’altra storica campagna ideata da quel genio di Bill. Siamo sempre in USA, anni ’60: Avis a quei tempi è la seconda azienda americana di noleggio auto, dietro alla potente Hertz. Inutile tentare di ribaltare le sentenze del mercato, così l’unico messaggio è condividere l’estrema responsabilità che ogni giorno sostiene Avis:

«Ci impegniamo dannatamente a soddisfare i nostri clienti. Non possiamo sbagliare. Non possiamo permetterci nessun minimo errore».

Non è questo che si fa quando si affronta un avversario più forte?

Avis non è riuscita a scalzare il dominio di Hertz, ma ha aumentato il distacco dal terzo posto, consolidando la sua posizione nel mercato e ponendo, di fatto, le basi per un nuovo duopolio.

 

È tutto così liscio?

Abbiamo visto due brillanti esempi di negative approach, strategia introdotta appunto da Bill Bernbach che fa leva su un aspetto negativo allo scopo di attirare le persone e farle riflettere, portandole a rivalutare di fatto la debolezza, dandole un peso inferiore, o meglio, trasformandole in un nuovo punto di forza. Oggi potremmo definire tutto questo come attività di PR: far percepire come importante un bisogno legato a una caratteristica del nostro prodotto/servizio e che quindi ne diventi la soluzione.

Gli effetti di questo approccio non sono sempre positivi come raccontato nei due casi studio e, in particolare, non possono essere preventivati prima del lancio: si può senz’altro apparire antipatici, per altri aggressivi, poco umili… è bene quindi dosare le parole e prepararsi risposte pronte per i più scettici. Il rischio di un flop è davvero alto e il confine tra «colpo di genio» ed «effetto boomerang» è sottile.

È fondamentale inoltre la presenza di un invito all’azione (CTA), un messaggio che dia un contorno alla nostra provocazione, che inneschi la riflessione: senza «Think small» e «So why go with us?», le campagne di Bernbach apparirebbero come un manifesto di inferiorità e inadeguatezza… mentre sono proprio il contrario!

Ti vengono in mente casi studio recenti di negative approach? Scrivimi in direct su Instagram.

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