Sono sempre stato affascinato dal mondo del design dei prodotti. Sarà capitato anche a voi di fermarvi per qualche istante a osservare la forma di un oggetto chiedendovi «ma perché ha proprio questo aspetto»?
L’affordance di un oggetto
Il concetto di affordance è stato introdotto nel 1966 dallo psicologo James Jerome Gibson nel suo The Senses Considered as Perceptual System, per poi essere approfondito dallo stesso Gibson nel libro The ecological approach to visual perception. Da “to efford” che significa offrire, fornire, secondo questo approccio gli oggetti ci comunicherebbero in modo intrinseco informazioni dirette sul loro utilizzo, anche alla prima visione.
Ad esempio, pensiamo alle porte degli edifici, come uffici o musei. Scommetto che sorriderete guardando la foto qui sotto.
Si tratta dello stesso modello di porta, ma in quella di sinistra è necessario spingere per entrare, mentre in quella di destra bisogna tirare. Le etichette con scritto “Push” e “Pull” svolgono una semplice funzione: colmano il gap di affordance delle maniglie. In altre parole, il design delle maniglie è così ambiguo da impedire all’utilizzatore di intuirne preventivamente l’utilizzo. Tuttavia, è evidente che queste informazioni testuali agiscono in un momento cognitivo successivo rispetto al primo sguardo rivolto alla maniglia, tant’è che spesso ci sfoghiamo a calci contro una porta irremovibile, per poi scoprire che è sufficiente tirare e non spingere per entrare.
La soluzione? Progettare (o non prevederle proprio) maniglie che godano di un’alta effordance, ossia che sappiano comunicare con i suoi utilizzatori in modo preventivo: a prima vista dovrò già sapere se spingere o tirare, senza margine d’errore. Don Norman nel 1988 ha dedicato un intero libro sull’affordance, descrivendo quel senso di incapacità personale che ci pervade quando non siamo in grado di accendere un interruttore o di lavarci le mani perché non sappiamo come azionare un rubinetto. La colpa non è dell’utente ma, come sostiene Norman, del progettista.
La porta di Norman: uno stimolo a un design più funzionale
Norman ha introdotto il concetto di Norman door, ossia:
a door where the design tells you to do the opposite of what you’re actually supposed to do.
ossia una porta che fornisce segnali errati all’utilizzatore e necessita così di un ulteriore segnale per correggere il difetto. Ecco che una porta equivoca può essere etichettata come porta di Norman. Se ci pensate, è la fiera della complicazione: perché aggiungere istruzioni per un’azione così semplice come aprire una porta? Perché non rendere il processo ovvio? Norman fornisce risposte apparentemente ovvie quanto geniali a questi e altri princìpi sul design degli oggetti quotidiani.
Come rendere inequivocabile l’azione di spingere una porta per aprirla? Semplice, sostituendo la maniglia con un pannello piatto apposto a media altezza. L’unica cosa che ci verrà in mente di fare è… spingere. Ottima soluzione anche quella della porta anti-incendio: la barra orizzontale non lascia (fortunatamente) margini di errori.
I princìpi per un buon design: human-centered design
Secondo Norman, esistono due semplici princìpi di design da seguire per progettare oggetti ad alta effordance:
- discoverability, ossia l’abilità di un soggetto di scoprire quali azioni può o non può compiere quando si relaziona con un oggetto. Pensate alla presa di alimentazione del vostro computer o alla cucitrice da ufficio: l’utente, con un solo sguardo, è in grado di capire che il connettore coi i pin va inserito nella presa e che i fogli vanno posizionati nella fessura all’estremità della cucitrice. Dal lato opposto, interfacce come il trackpad, nonostante godano di grandi potenzialità (multi-gesture, sensibilità pressione, ecc…), sono povere di discoverability.
- feedback: è un segnale di cosa sta accadendo. Un classico esempio di feedback è un segnale sonoro, come il “clic” del mouse: ve lo immaginate completamente “muto”? Come potremmo assicurarci di aver effettivamente fatto clic? Anche nel web è fondamentale il feedback: pensate ai pulsanti che cambiano colore o si accendono come illuminati da una luce quando il puntatore li attraversa. Non si tratta di estetica, ma di funzionalità, di feedback. È come se il pulsante esclamasse: «Ok, ho cambiato colore, quindi sono pronto per essere cliccato».
Discoverability e feedback sono le due colonne portanti dell’human-centered design, ossia della progettazione orientata allo sviluppo di soluzioni su misura e perfettamente adatte a rispondere alle esigenze e bisogni degli utilizzatori, in quanto umani. Tale approccio segue il seguente schema:
- il tutto parte dall’osservazione: non è necessario essere architetti o ingegneri per sviluppare un design efficace, è sufficiente esaminare con attenzione il comportamento delle persone e la loro interazione con gli oggetti, reali o digitali che siano; solo in questo modo, vivendo la quotidianità, è possibile giungere a un’idea brillante, a quella soluzione che, in qualche maniera, è sempre stata sotto i nostri nasi;
- l’idea c’è, è ora necessario sviluppare delle possibili applicazioni, anche sotto forma di prototipo;
- come giungere alla soluzione vincente? Test, test e ancora test. Per esempio, in questo precedente articolo abbiamo spiegato come Netflix testi ogni giorno decine di copertine per i contenuti, allo scopo di individuare quella che converte di più;
- si ritorna al punto 1.
Il linguaggio dei prodotti
David Bramston, designer industriale e docente universitario racconta, nel suo Il linguaggio dei prodotti, come avvenga una sorta di tacito dialogo tra uomo e oggetti:
«una relazione temporanea o momentanea, un processo fugace che condensa un sentimento, ma anche un incontro casuale attraente e stimolante per entrambi le parti».
Trovo affascinante la visione di Bramston: il design è comunicazione, è espressione visiva di un’esperienza, è affermazione di uno stato d’essere. Potremmo affermare che il design parla di e per noi.
Osservate l’oggetto che sta lì, proprio di fronte a voi: cosa vi sta comunicando?